Novanta anni fa ci fu chi disse no

Il 16 novembre del 1931, Albert Einstein scriveva una lettera al ministro della Giustizia Alfredo Rocco, dietro sollecitazione del giurista Francesco Ruffini, antifascista, docente all'Università di Torino, ministro della Pubblica istruzione nel 1916-1917 e membro del Comitato internazionale per la cooperazione intellettuale della Società delle Nazioni fino al 1925, per tentare di far desistere il governo fascista dalla sua "sconsiderata decisione" di introdurre per i docenti universitari un giuramento di fedeltà al regime.
Un giuramento che non era soltanto istituzionale – come quello di fedeltà al re che Giovanni Gentile aveva inserito nella sua riforma dell'istruzione pubblica del 1923 e che tutti i professori, pena la decadenza dalle cattedre, avrebbero dovuto sottoscrivere –, bensì ideologico e che venne pubblicato in forma definitiva l'8 ottobre 1931: "Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l'ufficio di insegnante e di adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo e non apparterrò ad associazioni o a partiti, la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio".
Un giuramento che fu il punto di arrivo di un processo di fascistizzazione delle università che, a partire dal 1927, si era fatto sempre più esplicito.
Come è stato dettagliatamente analizzato, le reazioni politiche e soprattutto morali di fronte a una tale richiesta furono decisamente diversificate da parte degli accademici italiani, anche in considerazione della presa di posizione sia della Santa Sede, che consigliò di accettare il giuramento, ma con una riserva mentale ("Salve le leggi di Dio e della Chiesa"), sia del partito comunista clandestino retto da Palmiro Togliatti, che diede indicazione ai professori antifascisti di giurare per poter così continuare a insegnare e a mantenere le cattedre, che sarebbero altrimenti passate in mano ai sostenitori del regime. Lo stesso Benedetto Croce, ideatore del Manifesto antifascista del 1925, a chi lo interpellò personalmente suggerì di giurare e proseguire, in un momento tanto critico, l'educazione secondo i principi della libertà.
Anche all'estero la richiesta del giuramento suscitò immediate reazioni e vari tentativi di scongiurarlo e tra coloro che immediatamente si attivarono, ci fu Einstein, che subito scrisse a Rocco:
"La mia preghiera è che lei voglia consigliare al signor Mussolini di risparmiare al fiore dell’intelletto italiano un’umiliazione simile. Per quanto diverse possano essere le nostre convinzioni politiche, io so che v'è un punto fondamentale che ci unisce; entrambi riconosciamo e ammiriamo nello sviluppo intellettuale europeo il bene più alto. Esso si fonda sulla libertà di pensiero e di insegnamento e sul principio che la ricerca della verità deve precedere ogni altro fine. È solo basandosi su un tale principio che la nostra civiltà è potuta sorgere in Grecia, celebrando la sua rinascita in Italia nell’epoca del Rinascimento. Quel bene, il più prezioso che noi possediamo, è stato pagato col sangue di martiri, di uomini puri e grandi, per opera dei quali l’Italia è tuttora amata e onorata. Berlino 16 novembre 1931".
Rocco non si preoccupò neppure di rispondere personalmente, ma lo fece fare a un suo collaboratore, che si affrettò a rassicurare Einstein che il giuramento non comportava alcuna adesione di stampo politico e che solo "sette o otto" professori avevano sollevato alcune obiezioni; tutti gli altri avevano giurato, fra loro "anche il famoso matematico Levi-Civita", nonché i professori appartenenti alle libere università, benché non obbligati a farlo.
Dunque, nulla di fatto: "In Europa andiamo incontro a bei tempi", fu la significativa annotazione di Einstein nel suo diario!
Nel dicembre del 1931 il giornale francese La Liberté pubblicò un articolo anonimo, ma pare a firma di Gaetano Salvemini, illustre storico e politico esule in Inghilterra, già docente all’Università di Firenze, e intitolato: "Perché il mondo civile sappia ...", articolo di denuncia del tristemente noto giuramento che, scriveva l’autore, era stato imposto con il ricatto e dunque non era valido. Venivano poi elencati i nomi di coloro che non avevano giurato e che, con quel gesto, lungi dal dissociarsi dai ben più numerosi colleghi, si ergevano a loro rappresentanti di fronte all'opinione pubblica straniera, perché non si credesse che la cultura italiana fosse asservita e totalmente in linea con un regime autoritario e lesivo della libertà, quale ormai da tempo risultava essere il fascismo di Mussolini.
Francesco Ruffini, Mario Carrara, Lionello Venturi, Gaetano De Sanctis, Piero Martinetti, Ernesto Buonaiuti, Giorgio Errera, Vito Volterra, Giorgio Levi Della Vida, Edoardo Ruffini Avondo, Fabio Luzzato, Bartolo Nigrisoli: questi i dodici che, secondo i dati ufficiali, non giurarono, e che persero la cattedra e lo stipendio, procurandosi invece persecuzioni, proibizioni e soffocanti controlli.
Oggi, a distanza di novanta anni dal giuramento di fedeltà al fascismo, ricordiamo e condividiamo le parole dell'allora Rettore dell'Università di Bologna, il giurista Edoardo Volterra (figlio di Vito), nominato Prorettore nel novembre 1944 dal Comitato di Liberazione Nazionale e poi eletto Rettore il 19 giugno 1945, allorquando il Corpo accademico venne convocato, per la prima volta dopo il ventennio, a votare liberamente, che così si rivolse a quei dodici professori che dissero no:
"... agli uomini che in tempi tristissimi hanno saputo dare un luminoso esempio di forza morale, vada il nostro reverente e ammirato saluto".
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