Sulla bozza di Decreto Delegato in materia di Enti Pubblici di Ricerca

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 P. Valente    30-05-2016     Leggi in PDF

È oramai notizia di qualche settimana fa che il Governo si prepara a emanare (entro agosto) un decreto legislativo in materia di enti di ricerca, in virtù della delega introdotta dall’art. 13 della riforma “Madia” della Pubblica Amministrazione (legge 124/2015). Le novità che il nuovo decreto delegato porterebbe sono certamente importanti e appaiano in larga parte di segno positivo. Ne abbiamo notizia sia dalla stessa ministra Giannini, sia da una bozza del provvedimento, diffusa da un’organizzazione sindacale.

Venendo al contenuto del provvedimento, innanzitutto gli enti di ricerca vengono “liberati” dai vincoli della pianta organica e del regime delle autorizzazioni per il reclutamento: se le spese di personale si mantengono entro l’80% del proprio budget, gli enti saranno liberi di gestire autonomamente le assunzioni.

In secondo luogo, il decreto introduce l’agognato (almeno da una larga parte di ricercatori e tecnologi) status giuridico, ovvero la sottrazione delle norme sui ruoli professionali alla variabilità della contrattazione collettiva, e quindi la loro definizione per legge. In realtà quella che il Governo si appresta a varare è una duplice operazione: da una parte la piena ri-pubblicizzazione del rapporto di lavoro, sottraendo del tutto il personale di ricerca alle norme del testo unico del pubblico impiego (il D.lgs. 165/2001); dall’altra l’istituzione di sole due fasce, che vanno a sostituire gli attuali livelli I (dirigente di ricerca/tecnologo) e II (primo ricercatore/tecnologo), con la messa a esaurimento del III livello e, infine, l’introduzione di un meccanismo di reclutamento di tipo “tenure track“, ovvero di un contratto a tempo determinato che, a seguito di una verifica, si può trasformare in un’assunzione nella II fascia.

Se da un lato sono molti anni che il mondo della ricerca richiede l’introduzione del “tenure” (in uso in tutti i sistemi accademici del mondo), dall’altro questo probabilmente riprodurrà il problema che la legge “Gelmini”, ultima riforma universitaria (L. 240/2010), ha creato per i ricercatori universitari a tempo indeterminato, ovvero l’estrema difficoltà di carriera per la maggioranza dei ricercatori nella terza fascia, comunque in competizione con i giovani da immettere in ruolo. In quel caso per i quasi 25,000 ricercatori universitari interessati è stato varato un piano straordinario per il reclutamento di professori associati, che però – nonostante le risorse non piccole in campo – data l’entità del problema ha permesso l’assorbimento solo di una parte minoritaria della platea.

Numericamente il problema negli enti di ricerca sarebbe meno imponente ma non piccolo: 3391 ricercatori di III livello e 699 tecnologi di III livello, ovvero il 68% complessivo (dati fine 2014), per i soli enti vigilati dal MIUR. Assumendo una proporzione simile per gli altri enti, si tratterebbe molto probabilmente di ulteriori 1000 unità, circa, per un totale non inferiore a 5000. Anche con l’autonomia di reclutamento entro il vincolo dell’80%, la quota di personale che resterebbe nel III livello sarebbe comunque alta, poiché, rimosso il vincolo del turn over, rimane il problema delle risorse finanziarie.

C’è, infine, una norma che prescrive che il numero di ricercatori di I fascia non sia superiore al 30% di quelli della II. Norma positiva, mirante a evitare distorsioni con un livello apicale affollato e i livelli inferiori svuotati, ma sommando i ricercatori nel ruolo a esaurimento a quelli a tempo determinato, il 30% si traduce in realtà in una percentuale molto inferiore rispetto al totale: probabilmente tra il 10% e il 15%, certamente troppo bassa per avere una gestione equilibrata degli enti. La legge “Ruberti” di oramai 25 anni fa, stabiliva una saggia ripartizione 20-40-40 tra le tre fasce, corrispondente a un rapporto del 50% tra I e II.