La conquista della Luna

Il 20 luglio di cinquant’anni fa, alle ore 20, 17 minuti e 40 secondi di tempo universale, il lander di Apollo 11 si posò incolume sulla superfice della Luna. “Houston, qui Base della Tranquillità. L'Eagle è atterrato”, comunicò senza apparente emozione il comandante Neil Armstrong. La notizia rimbalzò immediatamente in tutto il mondo. Dopo 6 ore e 39 minuti, Armstrong uscì dal veicolo e si calò sul suolo del corpo celeste. Era la prima volta per l’umanità. Con questo “piccolo passo” si chiudeva con un vincitore e un vinto la corsa allo spazio, una singolar tenzone tra americani e sovietici eletta a surrogato di quella guerra “calda” che le due superpotenze non potevano farsi direttamente per paura dell’olocausto nucleare.
Tutto era cominciato con un attacco a sorpresa. Mentre il mondo si attendeva che gli yankee, riconosciuti leader in campo scientifico e tecnologico, onorassero la promessa del presidente Eisenhower di collocare un satellite artificiale in orbita terrestre bassa per celebrare l’Anno Internazionale della Geofisica, il 4 ottobre 1957 i sovietici lanciarono con successo lo Sputnik 1. Nemmeno il tempo per assorbire il colpo che, sempre dal misterioso cosmodromo di Baikonur, fu spedita in orbita la cagnetta Laika: la prima volta per un essere vivente, seppure in un viaggio senza ritorno. Passarono quattro anni di relativa inedia per gli USA, eccetto che per la fondazione di un’agenzia civile per coordinare le attività spaziali, la NASA – mossa che alla lunga sarebbe risultata vincente – e fu la volta del volo orbitale di Yurij Gagarin. La sua impresa sbalordì il mondo, e a essa seguirono numerosi altri primati: il lancio di una donna, la prima passeggiata extraveicolare, la circumnavigazione della Luna con le immagini della sua faccia nascosta, l’allunaggio dolce di un robot e le complesse manovre di aggancio di navicelle in orbita terrestre: preludio a più ardite spedizioni. Il tutto sponsorizzato da Nikita Krusciov a spese del budget militare e magistralmente gestito da un misterioso ingegnere capo, un mago dello spazio, Sergej Korolëv.
Salito alla presidenza nel gennaio del 1961, John Kennedy aveva ereditato il disastro. Con mano ferma egli fece appello all’orgoglio americano, pretendendo uno sforzo economico da tempo di guerra con la promessa di calcare il suolo lunare per la fine del decennio: “Non ci andremo perché è facile ma perché è difficile”, assicurò. Il budget della NASA schizzò a 5 miliardi di dollari all’anno, pari a 34 miliardi di oggi, di cui il 60% impiegato nel programma lunare Apollo; il personale dell’agenzia decuplicò passando a 36 mila unità, cui vanno aggiunte le oltre 300 mila unità delle aziende private ingaggiate nel progetto. Venne anche ripescato da un forzato stand-by Wernher von Braun, l’ingegnere tedesco che aveva costruito le bombe volanti V2 per Hitler. Risorse, tecnologie di punta, capacità industriale e organizzazione che i sovietici non avevano in eguale misura. Per parte loro potevano vantare un pugno di autentici geni nell’aerospazio (altrettanti galli, però, in un pollaio reso viscoso dalla burocrazia) e una forte tensione patriottica, ma non bastarono, anche perché proprio a metà della corsa una prematura morte tolse Korolëv dal gioco.
Cresciuti per offendere, i razzi sognati all’inizio del ’900 da Ciolkovskij, Oberth e Goddard diventarono nel contesto della Guerra Fredda l’occasione per l’umanità di librarsi nel cielo e conquistare la Luna. Ma la gara finì lì e non ebbe rivincita, a riprova che la motivazione non era una prepotente spinta di Ulisse, ma soprattutto la voglia di essere primi.